L’incipit deve contenere in sé la chiave della storia che andrete a sviluppare – i cosiddetti “semi della tragedia”. A differenza delle narrazioni più lunghe, come i romanzi, nel racconto bisogna condensare tutti i propri intenti in pochissime righe.
Come esempio ho scelto questo affascinante testo:
La signora Darbérat teneva un rahat lukùm tra le dita.
L’avvicinò alle labbra con precauzione e trattenne il respiro, temendo di dissipare col fiato il sottile velo di zucchero di cui era cosparso: «È alla rosa», si disse. Bruscamente diede un morso a quella carne vetrificata e un sapore d’acqua stagnante le riempì la bocca.
«È strano come la malattia acuisca le sensazioni».
Si mise a pensare a moschee, a orientali ossequiosi, (era stata ad Algeri durante il viaggio di nozze) e le sue labbra pallide abbozzarono un sorriso: anche il rahat lukùm era ossequioso.
Dovette passare a più riprese il palmo della mano sulle pagine del libro che, nonostante le sue precauzioni, si eran coperte d’un sottile strato di polvere bianca. Le sue mani facevano scivolare, rotolare, stridere i granellini di zucchero sulla carta liscia. «Questo mi ricorda Archacon, quando leggevo sulla spiaggia».
Aveva passato al mare l’estate del 1907. Portava in quel tempo un gran cappello di paglia con un nastro verde; s’installava proprio vicino al molo con un romanzo di Gyp o di Colette Yver.
Il vento le faceva piovere sulle ginocchia mulinelli di sabbia e, di tanto in tanto, ella scoteva il libro tenendolo per gli angoli. Era proprio la stessa sensazione: solo che i granellini di sabbia eran del tutto asciutti mentre questi piccoli detriti di zucchero le si appiccicavano un po’ alla punta delle dita. Rivide una striscia di cielo grigio-perla che sovrastava un mare nero.
«Eva non era ancora nata».
Si sentiva tutta piena di ricordi e preziosa come uno scrigno di sandalo.
(Incipit de “La camera” di Jean-Paul Sartre, da «Il muro», Ed. Einaudi, pag. 35)

Quando arrivo a questo punto, resto sempre un po’ senza fiato. La carne vetrificata di questo dolce orientale, che si dissipa in una massa liquida, sembra di averla sentita anche io, tra i denti, sotto la lingua. La sensazione tattile e uditiva dei granelli di zucchero e di quelli di sabbia, delle pagine del libro, sfogliate e ripulite, l’odore di rosa e sandalo. Il cielo e il colore del mare. In duecentocinquanta parole non c’è un rigo di questo incipit che non sia evocativo.
Parlando di evocatività, non posso non menzionare una cosa su cui investo spesso, durante il coaching o i workshop di scrittura creativa: la memoria episodica.
Possiamo riportare la mente a una situazione particolare del passato proprio grazie ai sensi (e uno scrittore non dovrebbe mai trascurare questo meccanismo).
In questo caso, la signora Darbérat viene ricondotta ai tempi della sua giovinezza grazie ai granelli di zucchero; ancora più raffinata però è la seduzione di Sartre nei nostri confronti: costruisce dettaglio dopo dettaglio la sua storia, creando una sottile nebbia informativa attorno ai pensieri della donna.
Modella cioè un’atmosfera senza dire esplicitamente che il personaggio rimpianga la giovinezza perduta o in che modo si rapporti alla nascita di sua figlia, Eva.
La fascinazione di questo svelamento sottile, raffinato e graduale (mai, secondo me, dare tutto in pasto al lettore alle prime battute), è innegabile.
Il punto di vista adoperato in questo estratto è quello degli occhi della signora Darbérat, cui Sartre “si accomoda”, scegliendo un ritmo narrativo che immetta noi lettori nella forma mentis del suo personaggio. La ricchezza delle descrizioni e l’ossessione compiaciuta dei particolari dicono molto dell’avidità cui lo stato di malattia ha condotto la donna.
Spesso mi ritrovo a consigliare questo incipit per un motivo ben preciso: se si sostituissero le pagine e l’inchiostro con una cinepresa, la resa sarebbe pressappoco la stessa; Sartre riesce cioè – e forse è dovuto alla mentalità da drammaturgo – a descrivere una perfetta scena riprendendone i dettagli visivi, gustativi, olfattivi. La sua scrittura è sensoriale.
E, pertanto, dà una rappresentazione della realtà molto solida rispetto a un racconto esclusivamente “mentalizzato” (per capire cosa intendo con ciò, clicca qui).
Di sicuro, un esempio di cui tener conto per un aspirante scrittore.
Passando all’altro incipit che vi avevo promesso la volta scorsa:
Era sempre vestita di nero, ma quando passava per la piazza di Santa Maria del Mare, come fiamme d’inferno i colori le guizzavano intorno, dei gialli, dei viola, perfino talora dei rossi e dei verdi; non portava bracciali, eppure bagliori dorati sembravano splenderle intorno ai polsi. Camminava eretta, rapida, con i grandi capelli rialzati oscillanti: impeto e altezza; sotto la gonna nera si profilava elegante la gamba fino alla coscia; la veste era scollata sul petto magro, arrossato, un largo nastro di velluto nero le fermava le arterie agitate del collo.
(Incipit di “Althénopis”, di Fabrizia Ramondino, Ed. Einaudi)

Ora, penna, matita ed evidenziatori alla mano!
(Consiglio di stamparne, di incipit, per lavorarci su fisicamente e scomporli, per comprendere i loro segreti).
Era sempre vestita di nero, ma quando passava per la piazza di Santa Maria del Mare, come fiamme d’inferno i colori le guizzavano intorno, dei gialli, dei viola, perfino talora dei rossi e dei verdi; non portava bracciali, eppure bagliori dorati sembravano splenderle intorno ai polsi. Camminava eretta, rapida, con i grandi capelli rialzati oscillanti: impeto e altezza; sotto la gonna nera si profilava elegante la gamba fino alla coscia; la veste era scollata sul petto magro, arrossato, un largo nastro di velluto nero le fermava le arterie agitate del collo.
A proposito di scrittura sensoriale, questo incipit è molto visivo: c’è un occhio, quello dell’autore, meticoloso, che rende poetici i particolari, enfatizzandoli.
Si sarebbe potuto scrivere che questa donna, sebbene vestisse sempre di nero, aveva un gran fascino e una innata eleganza, ma non sarebbe stata la stessa cosa. Non dopo aver letto questo incipit. Gli autori “visivi” hanno questo dono di descrivere la realtà come una pellicola cinematografica, come una fotografia o, addirittura, come un quadro. Procedono per visioni, conferiscono alla realtà descrizioni che esaltano quello che chiunque altro si farebbe invece sfuggire o non sarebbe in grado di tradurre in parole.
Tornando al brano, immediatamente possiamo notare una vera e propria esplosione di colori. Queste impressioni non sono senza uno scopo preciso, ci raccontano del personaggio, lo caratterizzano senza dire “indossava un paio di jeans chiari firmati Rawfolfo Lowell” (soprattutto quando indicare le griffe che un personaggio porta non serve a raccontarci di lui/lei).
Tali accenni creano un’aura di mistero, sono un occhio di bue su questa figura che si muove per le strade della città.
Nel raccontare questo incedere, la scrittura elegante, estremamente musicale, respira: si estende e si contrae.
Questo può essere fatto mostrando immagini precise, come quei capelli raccolti e tuttavia “oscillanti”, le arterie “agitate” intuibili sottopelle, ma anche facendo una giusta ricerca terminologica.
I verbi sono molto importanti e, se scelti con cura, possono conferire vita alle nostre immagini rispetto a un sinonimo mal piazzato.
Prendiamo ad esempio quel guizzare: un verbo dinamico, già solo a livello fonosimbolico. Guizzare, etimologicamente, deriverebbe dal vocabolo dialettale tedesco witsen, “lesto”, “vispo”, “pronto”. Serpentina e vivida l’associazione fiamma-colori.
La luce, ancora, è epifania inaspettata: con la parola bagliore si vuole intendere un improvviso risplendere che abbacina temporaneamente chi guarda questa figura femminile.
La punteggiatura, poi, fa il resto del gioco.
Osservate attentamente dove cadono le pause e che ritmo la Ramondino stia impartendo alla sua prosa.
Il risultato è che il suo non è un dire, è un mostrare dicendo, il famoso “Show, don’t tell“.
Alla fine, scorrendo queste righe con lo sguardo, finisci non solo per vederla questa donna, ma per chiederti cosa abbia di speciale per far risplendere il colore nero e apparire immersa in una luce tutta sua, pur senza monili ad attrarre l’attenzione sulle sue estremità eleganti.
Io, da lettrice, sarei molto curiosa.
E voi?
I libri, da cui questi testi sono tratti, li potete trovare qui:
Il muro di Jean-Paul Sartre
Althénopis di Fabrizia Ramondino
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Al prossimo appuntamento con la scrittura!
Se siete amanti dei podcast, trovate questo episodio qui:
Ascolta “Incipit: appuntamento al buio coi libri” su Spreaker.
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