Questione di incipit: la bambina e il suo cuore

bambina cuore

Come vi avevo promesso nel post precedente sugli incipit, eccoci ad analizzarne uno davvero interessante, tratto da “Un cuore così bianco”, romanzo dello scrittore e giornalista spagnolo Javier Marìas, vincitore di svariati e noti premi letterari.

Incipit:

Non ho voluto sapere, ma ho saputo che una delle bambine, quando non era più bambina ed era appena tornata dal viaggio di nozze, andò in bagno, si mise davanti allo specchio, si sbottonò la camicetta, si sfilò il reggiseno e si cercò il cuore con la canna della pistola di suo padre, il quale si trovava in sala da pranzo in compagnia di parte della famiglia e di tre ospiti. Quando echeggiò lo sparo, più o meno cinque minuti dopo che la bambina si era allontanata, il padre non si alzò subito da tavola, ma restò qualche secondo incapace di muoversi e con la bocca piena, senza riuscire a masticare né ingoiare, e tantomeno sputare il boccone nel piatto; e quando alla fine reagì e corse in bagno, chi lo aveva seguito notò che mentre scopriva il corpo insanguinato della figlia e si metteva le mani nei capelli continuava a passare il boccone di carne da una guancia all’altra, senza sapere che farne.

Personalmente, la prima volta che l’ho letto, mi aveva già conquistata con solo sedici parole. Trovai davvero intrigante la doppia negazione iniziale: “Non ho voluto sapere, ma ho saputo”, “una delle bambine, quando non era più bambina”.
A catturare sin da subito la nostra attenzione è la musicalità del testo, una nenia lenta e scandita che riesce a sfiorare gli apici dell’eros e della tragedia. A distanza di poche parole.
È una scrittura che investe molto nel senso di sorpresa del lettore, costruendolo progressivamente.

Trascinati dall’architettura della prosa, riusciamo a scoprire dopo un certo lasso di tempo cosa sia davvero accaduto – arriviamo a fine paragrafo avendo dubitato già molte volte.
Una donna, da poco tornata da un viaggio di nozze, durante una cena di famiglia si uccide con la pistola di suo padre.
Quando con i miei autori dico che “non è importante cosa, ma il come”, intendo esattamente questo. La scena sarebbe potuta essere snocciolata in un rigo. Invece è un piccolo capolavoro di letteratura per una serie di motivi, che continuiamo a osservare insieme.

  • Utilizzo di parole specifiche per depistare il lettore:

Usando la parola “bambina”, lo scrittore tocca delle corde precise: senso di tenerezza e desiderio di protezione per le creature indifese. Questi sentimenti vengono fatti gradualmente ingrossare come una nuvola che, proprio mentre sta per rompersi e rovesciare la sua pioggia, rivela qualcosa di inaspettato: il corpo adulto della suicida, a cui abbiamo attribuito tutti i valori dell’innocenza e della fragilità tipici dei fanciulli.
Caricata rigo per rigo, questa immagine così costruita credo colpisca veementemente il lettore quando viene distrutta davanti ai suoi occhi meravigliati.
Con tutti i racconti di cronaca nera dobbiamo riconoscere di esserci desensibilizzati agli atti estremi dei nostri simili; trovo questa sia stata una soluzione intrigante per innescare una partecipazione emotiva spiazzante nel fruitore.

  • Polivalenza delle parole: gli universi che abitano in noi

Possiamo leggere questa scelta secondo un altro livello, quello delle verità comuni a tutti gli esseri umani: per i genitori, i figli sono sempre “bambini”. Quella riversa in terra, anche se adulta, è sempre, per il padre del racconto, “la sua bambina”.
Io, non avendo figli, riesco tuttavia ad empatizzare con questo sentimento, poiché è un qualcosa di terribilmente ancestrale. Personalmente, poi, il temine “bambina” mi riporta a un sentimento malinconico e mi fa pensare a quella parte infantile che sopravvive in ogni adulto e vive delle medesime fragilità, solo in un corpo e in una psiche maturi. Questo ovviamente può valere solo per me, perché come lettrice metto in gioco il mio mondo interiore davanti a un testo che vuole parlarmi (per questo ho titolato, in neretto, “gli universi che abitano in noi”).

Tornando al testo, “bambina” fa parte di un climax che tende all’eros, ma si risolve nella morte.
Il perfetto conflitto tra Eros e Thanatos: c’è una bambina che perde l’illibatezza con le nozze; una bambina che si scopre donna davanti allo specchio, non più innocente, ma compiaciuta, vezzosa, quasi sensuale nell’atto di spogliarsi sbottonandosi la camicina, cercandosi tra i seni il cuore. L’organo però, anziché vivere battiti d’amore, incontrerà la canna di una pistola.

Non ho voluto sapere, ma ho saputo che una delle bambine, quando non era più bambina ed era appena tornata dal viaggio di nozze, andò in bagno, si mise davanti allo specchio, si sbottonò la camicetta, si sfilò il reggiseno e si cercò il cuore con la canna della pistola di suo padre.”

Trovo inoltre straordinario un altro dettaglio: la donna smette di essere “bambina” quando muore: dopo lo sparo è “il corpo insanguinato della figlia”, soltanto.

“Quando echeggiò lo sparo, più o meno cinque minuti dopo che la bambina si era allontanata, il padre non si alzò subito da tavola, ma restò qualche secondo incapace di muoversi e con la bocca piena, senza riuscire a masticare né ingoiare, e tantomeno sputare il boccone nel piatto; e quando alla fine reagì e corse in bagno, chi lo aveva seguito notò che mentre scopriva il corpo insanguinato della figlia e si metteva le mani nei capelli continuava a passare il boccone di carne da una guancia all’altra, senza sapere che farne.”

Anche “boccone” fa parte del gioco di suoni e delle immagini con cui l’autore racconta la tragedia di questo padre: il corpo della figlia è carne dissanguata; la carne nella sua bocca giace prigioniera tra denti e saliva. Nello spaesamento, viene trattenuta in bocca, ma non sputata o ingoiata. Un perfetto simbolismo per rappresentare lo spaesamento dell’uomo in un momento in cui il tempo sembra essersi cristallizzato, per sempre.

A qualcuno verrà da chiedere se le ripetizioni siano una cosa buona in narrativa. Dipende.
Quando, nell’atto di scrivere di getto, costruiamo un paragrafo o un capitolo, può sicuramente capitare la nostra mente si “appoggi” su di una parola e tenda a usarla spesso, dovendo la nostra mente “andare avanti” costruendo la storia. Quando andremo, nella fase di revisione, a rileggere la nostra bozza, tutte le ripetizioni inutili che troveremo dovremo classificarle come “refusi”. A questo si più ovviare in vari modi, che vi spiego qui.
In questo caso, invece, le ripetizioni non sono casuali, sono volute: fanno parte del disegno dell’artista.

Se questo articolo ha destato il tuo interesse o se hai voglia di condividere le tue opinioni con gli altri lettori che ci seguono, puoi scrivermi nella sezione commenti in fondo alla pagina.
Al prossimo appuntamento con la scrittura!

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Testo (escluso ovviamente quello menzionato di J. Marìas) di Maria Pia Dell’Omo.
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